La Sindrome Coronarica Acuta (SCA) racchiude uno spettro di quadri clinici caratterizzati dalla comparsa di dolore toracico riconducibile ad una patologia coronarica che determina un’ischemia miocardica come conseguenza di un’ostruzione acuta di un’arteria coronaria. A seconda delle caratteristiche elettrocardiografiche che rispecchiano la perdita incompleta o completa di miocardio, si distinguono le SCA con sopraslivellimento del tratto ST o STEMI (occlusione acuta e totale di un vaso coronarico) e le SCA senza sopraslivellamento del tratto ST o NSTEMI (occlusione coronarica parziale o intermittente). Si parla, invece, di angina instabile quando il dolore toracico compare a riposo ma non vi è morte delle cellule cardiache.
La valutazione della terapia antitrombotica nel paziente che ha avuto l’evento della SCA e necessita di essere stabilizzato risulta quindi essere di fondamentale importanza. Attualmente, la stratificazione del rischio guida il comportamento medico nella pratica clinica quotidiana e permette di ottimizzare il trattamento farmacologico, considerandone i potenziali benefici e i relativi rischi.
L’approccio del paziente con malattia aterosclerotica è un approccio multifattoriale: è una malattia che si evolve nel tempo e che interessa l’intero albero vascolare.
Nella gestione della cardiopatia ischemica si è sempre contato sulla terapia antiaggregante, sia nel paziente acuto che in quello stabile; negli ultimi anni le terapie antitrombotiche sono diventate più complesse, passando da una singola terapia antiaggregante alla duplice associazione (DAPT) sino ad un più vasto coinvolgimento di farmaci anticoagulanti.
Nei pazienti con malattia coronarica, sia cronica che gli esiti di una fase acuta, come si decide la terapia antitrombotica e la sua intensità?
L’aspirina rimane il fondamento della terapia antiaggregante in fase acuta e a lungo termine in pazienti con malattie coronariche e cerebrovascolari e il suo beneficio clinico nella prevenzione secondaria di eventi cardiovascolari è stato dimostrato in numerosi studi. Nei pazienti con cardiopatia ischemica stabile (CAD), il trattamento antitrombotico è iniziato con l’aspirina ed è tuttora il gold standard delle terapie, senza esser mai stato abbandonato in nessuna circostanza e mai tralasciato in nessuna forma di riacutizzazione o aggravamento della patologia.
Tra gli altri farmaci antiaggreganti piastrinici con meccanismo d’azione diverso dall’aspirina, gli inibitori del recettore piastrinico P2Y12 (ticlopidina, clopidogrel, prasugrel e ticagrelor) si sono dimostrati efficaci sia come farmaci da associare all’aspirina nel trattamento delle sindromi coronariche acute, sia come singola terapia antiaggregante per la prevenzione secondaria non solo nella cardiopatia ischemica, ma anche in alcune forme di ictus ischemico.
Risulta quindi chiaro che i candidati ideali alla duplice terapia (antitrombotica o antipiastrinica) sono i pazienti con CAD associata a multipli fattori di rischio, o singoli fattori di elevato rischio (es. diabete mellito, arteriopatia periferica o insufficienza renale moderato-severa), in cui la frequenza di eventi ischemici ricorrenti è di gran lunga superiore a quella di eventi emorragici, con un evidente beneficio in termini di eventi CV avversi, riospedalizzazioni e costo-efficacia.
Quale strategia terapeutica antitrombotica adottare, oltre alla sola aspirina, dopo un evento aterotrombotico vascolare stabilizzato? I pazienti con vasculopatia cronica cerebrale, periferica, con cardiopatia ischemica stabile come possono ridurre il loro rischio residuo di eventi ischemici futuri?
Una possibilità di trattamento per la riduzione del rischio cardiovascolare residuo viene fornita dallo studio COMPASS dove Rivaroxaban a dosaggio vascolare (2,5 mg due volte al giorno) in associazione ad aspirina ha
ridotto gli eventi cardiovascolari e la mortalità totale, cardiovascolare e coronarica nei pazienti con malattia coronarica (CAD stabile e/o PAD), a discapito di un incremento degli eventi emorragici maggiori non fatali.
Nello studio, che è stato concluso in anticipo, la associazione di rivaroxaban e aspirina ha portato a una riduzione del rischio di incidenza (endpoint combinato) di infarto del miocardio, di ictus e di mortalità cardiovascolare (eventi avversi cardiovascolari maggiori, MACE) durante un follow-up medio di circa 2 anni.
I risultati dello studio hanno infatti dimostrato la chiara superiorità dell’associazione del dosaggio vascolare di rivaroxaban e aspirina rispetto alle varie strategie della doppia terapia antiaggregante nel ridurre gli eventi cardiovascolari.
I risultati dello studio COMPASS probabilmente cambieranno l’attuale comune pratica clinica, fornendo un’alternativa all’attuale standard di trattamento per ridurre il rischio residuo cardiovascolare in pazienti con malattia aterosclerotica stabile.
E’ di fondamentale importanza una corretta raccolta delle informazioni circa le comorbidità e la qualità della vita del paziente al fine di identificare i fattori di rischio e instaurare prontamente le misure necessarie per i corretti stili di vita e la terapia medica necessaria.
A cura del:

Dott. Leone Capaldo
Medico Chirurgo, Specialista in Cardiologia
Specialista Ambulatoriale di Cardiologia presso la ASL ROMA 1